L’Italia dica grazie alla classe operaia

Le fabbriche rimangono aperte, anche quelle non essenziali. Sempre che vengano rispettate le indicazioni previste nell’accordo di contrasto e contenimento del coronavirus, siglato tra governo, sindacati e imprese.

Ancora una volta il mondo del lavoro si fa carico dei propri diritti e di quelli del Paese, come durante la Resistenza, quando gli stessi operai delle fabbriche, negli ultimi giorni di guerra, difesero i macchinari che i tedeschi intendevano portare via.

La difesa di quei macchinari in tante fabbriche a Genova, Milano, Torino, e non solo, consentì di riprendere subito la produzione e di riavviare il riscatto, anche economico, della nuova Italia libera, nata anche grazie ai sacrifici dei tanti operai deportati e spesso morti nel lavoro gravoso dei campi di concentramento tedeschi.

76 anni fa, il 1° marzo 1944 i lavoratori delle fabbriche delle regioni d’Italia ancora occupate scendono in sciopero.

A Torino entrano in sciopero i lavoratori della Fiat, in Lombardia quelli dell’Alfa Romeo, della Breda, della Ercole Marelli, della Falck, della Innocenti, della Isotta Fraschini e della Dalmine. Alla protesta partecipano anche gli operai toscani delle Officine Galileo e della Pignone; in Emilia Romagna quelli delle Officine Meccaniche Reggiane e della Ducati.

Tanti, tantissimi lavoratori (secondo il Ministero degli interni 208.549, di cui 32.600 solo a Torino; secondo Leo Valiani, d’accordo anche Paolo Spriano, perlomeno 500.000 operai e impiegati; secondo Battaglia, 1.200.000) incrociano le braccia malgrado la repressione, la minaccia di licenziamento,  la paventata deportazione in Germania. Scioperano anche i tranvieri, i postelegrafonici, gli operai del Corriere della Sera.

Scriverà il 9 marzo 1944 il «New York Times»: “In fatto di dimostrazioni di massa non è avvenuto niente nell’Europa occupata che si possa paragonare con la rivolta degli operai italiani. E’ il punto culminante di una campagna di sabotaggio, di scioperi locali e di guerriglia che hanno avuto meno pubblicità del movimento di resistenza altrove perché Italia del Nord è stata tagliata fuori dal mondo esteriore. Ma è una prova impressionante, che gli italiani, disarmati come sono e sottoposti a una doppia schiavitù, combattono con coraggio e audacia quando hanno una causa per la quale combattere”.

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In realtà l’esito degli scioperi non sarà totalmente positivo: le rivendicazioni economiche non verranno accolte e la repressione sarà durissima.

L’ambasciatore tedesco Rudolf von Rahn riceve personalmente da Hitler l’ordine di far deportare il 20 per cento degli scioperanti.

Anche se il provvedimento non sarà eseguito nella misura indicata per ‘difficoltà tecniche inerenti ai trasporti’ e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica, si calcola che circa 1.200 operai saranno deportati nei campi di lavoro o in quello di sterminio di Mauthausen.

Tra i lavoratori arrestati e deportati anche un non ancora diciottenne Giuseppe Galbani, che qualche anno fa ricordava: “L’immagine più forte che mi porto dietro del lager e della prigionia è un cucchiaio di legno: non ho mai trovato le parole per esprimere la gioia di aver incontrato un altro prigioniero di Lecco all’interno del campo; si trattava di Guido Brugger e anche se non ci conoscevamo, abbiamo fatto subito qualcosa l’uno per l’altro e lui mi ha dato questo cucchiaio di legno per la minestra. È l’immagine più bella di quell’esperienza devastante! A quell’epoca la Patria pretendeva di tutto, quindi venne indetto uno sciopero per chiedere la fine della guerra e un piccolo aumento salariale per far fronte alle spese per i generi di prima necessità, come pane e farina […] Così gli scioperanti lecchesi vengono arrestati e passano otto giorni a Como, poi di nuovo a Lecco nello scantinato della biglietteria senza poter parlare con nessuno; da qui sono portati a Bergamo, dove avviene il baratto della vita degli operai tra fascisti e tedeschi: solo dieci operai vengono mandati a casa, gli altri rimangono a Bergamo in un’attesa che si fa sempre più stressante, prima del viaggio con destinazione ignota”.

“Lo sciopero generale politico rivendicativo del 1-8 marzo assume un’importanza e un significato nazionali e internazionali di gran lunga superiori agli obiettivi immediati che esso si poneva – scriveva in quei giorni «La nostra Lotta», organo del Partito comunista italiano – indica la strada da seguire nel prossimo avvenire in cui si annunciano grandi e decisive battaglie, in Italia e nel mondo, per l’annientamento del nazifascismo e la liberazione dei popoli. Gli operai italiani che l’hanno sostenuto, i lavoratori e i patrioti che l’hanno appoggiato, le organizzazioni che l’hanno preparato e diretto possono essere fieri e orgogliosi della grande battaglia combattuta: essa s’iscrive fra le migliori pagine della lotta dei popoli per la propria libertà e costituisce una tappa decisiva per il risorgimento della nostra patria. I sacrifici di oggi sono il prezzo e il pegno del sicuro trionfo di domani”.

Ricordare oggi gli scioperi del 1° marzo 1944 contro l’invasore nazifascista non serve soltanto per una indispensabile operazione della memoria.

Vuole essere un modo per dire grazie ai tanti lavoratori ed alle tante lavoratrici che in questi giorni permettono all’Italia tutta di andare avanti, nelle cure mediche, nei servizi, nella produzione e nei consumi.

E’ un modo per dire grazie a quegli operai troppo spesso dimenticati, che continuano a lavorare nonostante le preoccupazioni e la paura. La paura non tanto di andare al lavoro ma di tornare a casa dai propri familiari ed esporli al rischio, remoto o meno che sia, di contagio.

“C’hanno provato, a spiegarci che gli operai non esistono più – scriveva qualche mese fa Giorgio Sbrordoni – A nascondere questa categoria nelle pieghe del Novecento come fosse una cartolina ingiallita del secolo scorso. Ci stanno provando a lasciarli sempre più soli, ai margini. Presi in giro dalle multinazionali come Whirlpool, beffati dalla cassa integrazione come a Taranto da Arcelor Mittal, sospesi nell’attesa estenuante che si compia il proprio destino come nel Sulcis Iglesiente dell’ex Alcoa, delusi da anni come a Termini Imerese o a Flumeri, sedotti e abbandonati come a Mirafiori e nelle altre stazioni della galassia Fca. Ci stanno provando. A tagliarli fuori da ogni discussione sul futuro del Paese. Come se non fossero loro a stringere i bulloni di questa sgangheratissima Italia, a mandare avanti la baracca tra turni estenuanti e incertezza costante”.
C’hanno provato, ma non ci so no riusciti, ed oggi più che mai a tutti loro l’Italia  intera è tenuta a dire un sentito e meritatissimo GRAZIE!

Ilaria Romeo, Archivio Storico Cgil

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