1 febbraio ’45. Le donne conquistano il diritto di voto – Ilaria Romeo

Prima del 1945 alle donne non era consentito votare. Un decreto del 1945 (decreto legislativo luogotenenziale 1 febbraio 1945 n. 23) concede alle maggiorenni (21 anni) il diritto di voto attivo, mentre un decreto del 1946 concede alle donne maggiori di 25 anni il diritto di voto passivo (decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74).

Le uniche a essere escluse dal diritto di voto attivo saranno le donne citate nell’articolo 354 del regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza: si trattava delle prostitute schedate che lavoravano al di fuori delle case dove era loro concesso di esercitare la professione.

Scriveva l’Unità il 31 gennaio 1945: “Questo avvenimento [la riunione del Consiglio dei ministri del 30 gennaio 1945 nella quale si discute del suffragio femminile, approvato come qualcosa di ovvio ed inevitabile] è una grande vittoria della democrazia, giacché una forza politica nuova viene immessa nella vita nazionale […] si tratta di una scelta validissima di nuovi dirigenti, i  quali, particolarmente per quanto concerne i problemi della vita cittadina, della vita locale, hanno l’enorme vantaggio di conoscere e sentire più direttamente i bisogni più immediati dei singoli e delle famiglie. Una ventata di sano buon senso entrerà sicuramente nella vita politica, e nella vita amministrativa entrerà con le donne un maggior spirito di concretezza”.

Le prime elezioni politiche in Italia si svolgeranno nel giugno del 1946, quando la popolazione sarà chiamata a votare a favore del referendum istituzionale Monarchia-Repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente. Ma in realtà già qualche mese prima, alcune donne erano andate alle urne per le amministrative comunali. In quell’occasione saranno elette le prime donne sindaco della nostra storia.

Le loro foto campeggiano nella Sala delle donne di Montecitorio, dove dal 2016 vengono ricordate attraverso fotografie le donne che hanno fatto parte delle istituzioni repubblicane.

Ci sono i ritratti delle 21 costituenti; delle prime dieci sindache elette nel corso delle elezioni amministrative del ‘46; della prima presidente della Camera; della prima Ministra, Tina Anselmi; della prima Presidente di Regione, Anna Nenna D’Antonio.

Nella sala ci sono ancora due specchi (nel 2016 gli specchi erano tre) per ricordare che in Italia non ci sono mai state donne che hanno avuto il ruolo di premier o presidente della Repubblica. Sotto gli specchi la scritta Potresti essere tu la prima, per rimarcare un’assenza, per indicare un percorso da compiere ma anche per ricordare alle donne che vedranno la propria immagine riflessa negli specchi, che potrebbero essere le prime a ricoprire tali cariche.

Punto di arrivo di un percorso lungo e tortuoso, il riconoscimento del diritto di voto alle donne in Italia prende le mosse dallo Statuto Albertino (Costituzione adottata dal Regno di Sardegna il 4 marzo 1848 a Torino), che all’articolo 24 recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”.

Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito.

Nel 1877, Anna Maria Mozzoni presenta al governo la prima di una lunga serie di petizioni per il voto politico alle donne che sarà bocciata, nello stesso momento le donne che ne hanno i requisiti prescritti dalla legge cominciano ad essere iscritte nelle liste elettorali (nel 1867 il deputato Salvatore Morelli presentava  un primo disegno di legge per consentire il voto alle donne dal titolo ‘Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici’. La proposta, respinta con voto della Camera dei deputati, sarà ripresentata nel 1875).

“Ora – dirà la Mozzoni – questa massa di cittadini che ha diritti e doveri, bisogni ed interessi, censo e capacità, non ha presso il corpo legislativo nessuna legale rappresentanza, sicché l’eco della sua vita non vi penetra che di straforo e vi è ascoltata a malapena.[…] trovandoci noi [donne], perciò, al giorno d’oggi, alla eguale portata intellettuale di una quantità di elettori [uomini] che il legislatore dichiara capaci, stimiamo che nulla costi acché venga a noi pure accordato il voto politico, senza del quale i nostri interessi non sono tutelati ed i nostri bisogni rimangono ignoti”.

Intanto le Corti di appello cominciano a trovarsi nella condizione di dover bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali accolgono (la Corte di appello di Ancona presieduta da Lodovico Mortara sarà  l’unica ad accogliere nel 1906 la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano. Al terzo e definitivo grado di giudizio la sentenza sarà comunque rovesciata).

Così la Corte di appello di Firenze giustificherà il respingimento della richiesta: “Potrebbe avvenire che una maggioranza di donne venisse a formarsi in Parlamento, che coalizzandosi contro il sesso maschile, obbligasse il Capo dello Stato, scrupoloso osservatore delle buone norme costituzionali, a scegliere nel suo seno i consiglieri della Corona, e dare così al mondo civile il nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di donne, con quanto prestigio e utilità del nostro paese è facile ad ognuno immaginarsi”.

Anche Argentina Altobelli prenderà posizione su La Squilla a favore del voto alle donne, da conquistarsi “non per le viottole contorte delle distinzioni e dei privilegi, ma per la gran via maestra del suffragio universale  concesso a tutti, senza tener conto del sesso, delle condizioni, e anche agli analfabeti” (nel 1904 era stato costituito il Consiglio delle donne italiane, aderente all’International Council of Women. Il Consiglio aveva organizzerà a Roma, in Campidoglio, nel 1908 il primo Congresso delle donne italiane, inaugurato dalla Regina Elena. L’obiettivo è quello di estendere il diritto di voto delle donne della classi più elevate).

Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe esteso il voto anche agli analfabeti maschi, i deputati Giuseppe Mirabelli, Claudio Treves, Filippo Turati e Sidney Sonnino proporranno un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giolitti vi si opporrà strenuamente, definendolo un salto nel buio. La questione, rimandata all’esame di una apposita commissione, sarà accantonata.

Il 9 maggio 1923 anche Mussolini, al governo da un anno, parlerà al nono Congresso dell’Alleanza femminile internazionale (Roma, 14-19 maggio 1923) del suffragio femminile, promettendo alle donne il voto amministrativo, ma due anni più tardi una riforma rimpiazzerà i sindaci con i podestà, cancellando il voto amministrativo in generale.

Il 1º settembre 1939, con l’invasione della Polonia da parte della Germania, ha inizio la Seconda guerra mondiale. Ancora una volta, con gli uomini impegnati al fronte, alle donne viene chiesto di svolgere attività fino a prima della guerra tipicamente maschili.

L’8 settembre comincia la Resistenza al nazifascismo.

Stando ad alcuni calcoli fatti dall’Anpi, furono 35.000 le partigiane combattenti, 20.000 le patriote con funzioni di supporto, 70.000 le donne appartenenti ai Gruppi di difesa per la conquista dei diritti delle donne, 5.000 circa le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, circa 3000 le deportate in Germania.

Riconquistata la democrazia, il 2 giugno 1946 in Italia si vota per il referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente. Le elette donne sono 21 su un totale di 556 deputati: nove del Partito comunista, nove della Democrazia cristiana, due del Partito socialista, una dell’Uomo qualunque. Provenienti da tutta la penisola, in maggioranza sposate (14 su 21) e con figli, giovani e dotate di titoli di studio (14 laureate), molte avevano preso parte alla Resistenza, pagando spesso personalmente e a caro prezzo le loro scelte, come Adele Bei, condannata nel 1934 dal Tribunale speciale a 18 anni di carcere per attività antifascista, Teresa Noce, messa in carcere e poi deportata, Rita Montagnana.

Dirà Marisa Cinciari Rodano  in occasione della presentazione del libro Le donne della Costituente per la celebrazione del 60° della Costituzione (Roma, 31 maggio 2007): “La vera novità era che di quell’assemblea facevano parte 21 donne. Anche in questo caso si incontravano generazioni ed esperienze diverse: donne già mature, nate nell’ultimo quindicennio dell’800 e nei primissimi anni del ‘900, che avevano combattuto contro il regime prima della marcia su Roma o che avevano dovuto abbandonare l’impegno politico dopo l’avvento del fascismo, per sostituirlo con la militanza nelle associazioni cattoliche o di beneficenza; donne provenienti dalla Resistenza come Nilde Iotti, Teresa Mattei, Laura Bianchini, Bianca Bianchi, Maria Maddalena Rossi. Alcune erano giovanissime. Teresa Mattei, Nilde Iotti e Angiola Minella avevano poco più di 25 anni; Filomena Delli Castelli e Nadia Spano – che proveniva dalla Tunisia – ne avevano 30. La novità non era soltanto che per la prima volta, in Italia, vi erano donne elette in un consesso parlamentare, ma che quelle donne hanno impresso un segno significativo nella Carta fondamentale che sta alla base dell’ordinamento della Repubblica. Di certo, che vi fossero donne in quell’assemblea era, di per sé, un fatto straordinario; coronava decenni e decenni di lotta dei movimenti femminili e femministi e di iniziative nel Parlamento prima del fascismo. Un diritto che venne riconosciuto in extremis nell’ultimo giorno utile per la composizione delle liste elettorali, alla fine del gennaio ‘45, ma che non fu, come taluno sostiene, una benevola concessione, ma il doveroso riconoscimento del contributo determinante che le donne, con le armi in pugno e soprattutto con una diffusa azione di massa, di sostegno alla Resistenza, avevano dato alla liberazione del Paese”.

Ilaria Romeo, Archivio Storico Cgil

2 pensieri riguardo “1 febbraio ’45. Le donne conquistano il diritto di voto – Ilaria Romeo

  1. Bell’articolo, senz’altro da condividere. Ma perché non citare mai Laura Boldrini che peraltro ha voluto e inaugurato la Sala delle donne nella nuova versione dello specchio mancante? Credo che le vada riconosciuto il merito di essere stata e di essere tuttora una politica dalla parte delle donne e che per loro ha fatto molto. Grazie

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  2. più leggo questi articoli e meno li capisco. Gli errori della storia vanno lasciati alla storia e non esistono colpevoli quando tutti sono “nati in nome della colpa”. E’ il manuale d’uso del comportamento umano (codice civile o religioso) il vero responsabile del ritardo dell’ uomo, eppure, nonostante tutto, nonostante i potenti mezzi d’istruzione di oggi, è l’ignoranza la scala ascendente o discendente dei soprusi umani, perché le vittime e i carcerieri sono sempre degli umani. Non mi risulta che capre, tori o leoni, anche se di pietra od oro abbiano imposto all’uomo le regole di convivenza.
    Dio?… chi è se non un uomo Travestito da Dio?

    E’ la presa di coscienza sociale ciò che determina i diritti, ma poi, i doveri li adempiamo?
    Il diritto è tale quando diventa un dovere.

    Ecco le donne della Resistenza che cominciano a risvegliare le coscienze femminili per imporre i nuovi doveri a se stesse e ai loro partner dopo il fallimento mondiale che le ha viste escluse. Nilde Iotti? L’ho conosciuta di persona e ho ubbidito anche i suoi ordini, eppure siamo stati travolti e perdenti anche per l’ignoranza e arretratezza delle donne “di altri”.

    Chiedo: E’ la Democrazia il male delle donne o viceversa?

    Io penso sia l’ignoranza dei molti.

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