17 febbraio ’77. Luciano Lama contestato alla Sapienza – Ilaria Romeo

Il 17 febbraio 1977 (un anno terribile, con tre studenti morti – Francesco Lorusso, Giorgiana Masi e Walter Rossi – e le Brigate Rosse che sparano ai giornalisti, ferendo Montanelli e uccidendo Carlo Casalegno) Luciano Lama viene contestato a La Sapienza di Roma.

“All’epoca io ero all’Università – dirà anni dopo la figlia Rossella – provai a spiegargli che potevano esserci disordini, lui però era deciso. Non poteva accettare che ci fosse una zona off limits in cui il sindacato non poteva entrare e che gli studenti contrari a quel clima la dovessero subire. La considerava una missione”.

“Ci sarei andato lo stesso – ribadirà Luciano al giornalista della tv svizzera Gianni Delli Ponti che gli chiede se, sapendo che cosa bolliva in pentola, La Sapienza l’avrebbe evitata – era necessario far scoppiare il bubbone, bisognava che si capisse dove stava il pericolo e di che cosa si trattava. E infatti milioni di persone cominciarono a capire […] Ero lì per fare un discorso e collegare i lavoratori e gli studenti che protestavano non si capiva bene contro chi, almeno i più aggressivi”.

Alle 8.00 del mattino, il segretario della Cgil entra nella città universitaria a piedi, seguito dal servizio d’ordine e da militanti della Camera del lavoro e della Federazione comunista della capitale.

Alle 10 in punto inizia il comizio: “Compagne e compagni, lavoratori e studenti, io credo che il modo migliore per utilizzare questa occasione sia quello di ragionare e ascoltare con calma – dirà Lama dal palco, un Dodge rosso americano che dalla fine della guerra era stato presente in tutte le feste di liberazione, Feste dell’Unità, ogni primo maggio a San Giovanni, parcheggiato diagonalmente nello spazio fra le aiuole della Facoltà di legge e il Rettorato -. Questa grande manifestazione di lavoratori e studenti può forse essere un poco disturbata, non può essere impedita. Io voglio dire compagne e compagni che questa mattina ero venuto qui francamente curioso di vedere quello che un giornale, il solito Corriere della Sera, ci preparava. Parlava di carri armati che sarebbero entrati all’Università di Roma; francamente carri armati non ne ho veduti. Ho visto migliaia di lavoratori, di lavoratrici, di studenti riuniti qui per discutere di un problema vitale, non solo della gioventù italiana, ma dell’intera società del nostro paese, ed è di questo che dobbiamo parlare qui oggi perché questi sono i problemi reali che assillano insieme i giovani e gli adulti in Italia. Quale domani prepara questa scuola a voi compagni studenti e ai lavoratori? E’ questa la domanda che noi ci dobbiamo porre, e a questa domanda deve rispondere non solo questa nostra manifestazione, ma l’impegno del mondo studentesco e culturale del nostro paese e l’impegno di lotta delle grandi masse dei lavoratori italiani. […] Noi non pensiamo di poter agire senza di voi e tanto meno pensiamo di poter agire contro di voi. Vedete, noi abbiamo partecipato quando c’erano i tedeschi e i fascisti alla lotta clandestina e noi italiani abbiamo difeso le macchine e le fabbriche del nord. Sono le solite parole, dice qualcuno. No! Sono parole e fatti nei quali decine e decine di uomini hanno perduto la vita. Questa è la verità. […] Qualcuno ci accusa di voler normalizzare. Normalizzare che cosa? Noi vogliamo cambiare, trasformare, rinnovare l’Università e il paese, altro che normalizzare. […] Dobbiamo, con la forza della democrazia e col consenso, contro i fascisti e contro la violenza, perché noi siamo dalla parte del giusto e della legge, conquistare il rinnovamento nell’università e nella società. Io voglio concludere a questo punto con un appello alle forze intellettuali e culturali perché si impegnino in questa grande impresa di rinnovamento che non è certo impresa al servizio del potere, ma è una impresa al servizio della causa nobile e grande dei lavoratori per il cambiamento della società italiana. [… ] Guardate amici e compagni, se voi disperderete le vostre forze e il vostro impegno in un atteggiamento che è di rifiuto di una politica reale di rinnovamento, le forze del lavoro, le forze del progresso non si arresterebbero. Noi avremmo certo più difficoltà, maggiori ostacoli a superare ma la nostra volontà non sarà piegata da alcuna resistenza. Guardate che soltanto con l’aiuto, con il sostegno, con la partecipazione dei lavoratori voi riuscirete a ottenere il successo se ciò che vi sta a cuore è davvero l’avvenire del nostro paese”.

Forse il discorso è finito, forse no, ma continuare non è più possibile. Vola di tutto sul palco assediato e bisogna abbandonare il campo, in fretta.

“Basta, basta, non ci si picchia fra compagni”, afferma qualcuno, piangendo.

Alle 10 e 30 Bruno Vettraino dichiara sciolta la manifestazione e Lama viene portato via dall’Università sulla Mini minor rossa di un ferroviere intercettato davanti a La Sapienza, iscritto alla Cgil.

lamasapienza

Il palco è capovolto e demolito, il bilancio, parziale, sarà di un centinaio di feriti, medicati in Facoltà, al Policlinico, nei locali della Federazione romana del Pci di via dei Frentani, oggi sede dell’Archivio storico della Cgil.

“Sono stato l’ultimo a scendere prima che il palco venisse distrutto – racconterà Bruno Vettraino, segretario della Camera del lavoro di Roma che avrebbe garantito a Lama l’assenza di pericoli contro il quale molte dita saranno puntate – Era un vecchio scassone. Dal Dopoguerra in poi, però, non c’era stata manifestazione importante, da Porta San Paolo a San Giovanni, in cui il Dodge rosso non fosse in testa al corteo. Difficile spiegare a chi non è stato militante del Pci in quegli anni. Ma, alla fine degli scontri, più che le teste rotte, quello che sembrava bruciare di più era proprio la perdita di quella bandiera”.

Lama tornerà a La Sapienza esattamente tre anni dopo, nel febbraio 1980, come oratore della manifestazione organizzata in memoria dell’appena scomparso Vittorio Bachelet, giurista e politico italiano, docente universitario, presidente dell’Azione cattolica negli anni del Concilio Vaticano II, vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura ed esponente democristiano ucciso 40 anni fa dalle Brigate Rosse.

“Spero che questa volta ci sia una prova di unità tra lavoratori, insegnanti e studenti. In questo palazzo c’è un uomo morto, appartiene anche lui alla nostra famiglia, alla famiglia di coloro che non accettano la violenza. Che si battono per la vita contro la morte”, tuonerà il segretario generale della Cgil in un’aula magna di Giurisprudenza brulicante di studenti.

Il presidente Sandro Pertini, attonito, interrompe le udienze e si precipita all’università.  “Questo di oggi è il più grave delitto che sia stato consumato in Italia – dirà nell’occasione – perché il delitto Moro aveva un carattere politico, mentre quello di oggi è diretto contro le istituzioni; perché si è voluto colpire il vertice della magistratura, il vertice del pilastro fondamentale della democrazia”.

Il 12 febbraio 1980 Rosy Bindi, all’epoca assistente di Vittorio Bachelet, compiva 29 anni. Fu l’ultima a parlare con il professore.

Ed ero già vecchio quando

vicino a Roma a Little Big Horn,

Capelli Corti generale ci parlò all’università,

dei fratelli tute blu che seppellirono le asce.

Ma non fumammo con lui, non era venuto in pace

(Fabrizio De André)

Ilaria Romeo, Archivio Storico Cgil

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